11. Giochi da tavolo
© Tutti i diritti riservati all’autore | Marco Moroldo febbraio 2022
Anche considerando le inevitabili approssimazioni che caratterizzano una statistica di questo genere, è realistico ritenere che il Monopoly sia il gioco da tavolo più giocato al mondo, ovviamente escludendo i giochi non protetti da diritti d’autore, come la dama o gli scacchi 1.
Non è un caso. Al di là del fatto che si tratta di un passatempo semplice e coinvolgente, bisogna considerare che i giochi, come qualsiasi altra attività umana, rispecchiano le società che li inventano, con tutto il loro impianto culturale e socioeconomico. E questo svago, di fatto, riflette alla perfezione il capitalismo. Anzi, non è esagerato dire che ne esprime l’essenza.
Non è mia intenzione fare una tirata moralista nei confronti del Monopoly, sarebbe un po’ fuori luogo. D’altro canto, però, sarebbe altrettanto ingenuo sottovalutarne l’impatto simbolico.
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Veniamo a noi. Perché attribuire così tanta l’importanza a quello che potrebbe sembrare solo un divertimento innocuo? Perché, dal punto di vista dell’analisi economica, i monopoli sono così inestricabilmente legati al capitalismo che ne costituiscono senz’altro una delle manifestazioni in assoluto più centrali e inquietanti.
Si tratta di una tematica di estrema rilevanza, ma che oggi viene raramente discussa in modo corretto. I ragionamenti vertono o su mille aspetti tecnici (ad esempio le varie forme di monopoli esistenti, le circostanze che ne favoriscono la comparsa e le varie sfumature a livello del quadro legale), oppure si concentrano troppo sui famosi GAFAM 2, che appaiono però spesso come una realtà lontana dall’esperienza quotidiana. Questo approccio, inevitabilmente, fa perdere di vista l’essenza della questione. Cosa, purtroppo, probabilmente voluta.
Per trovare analisi molto più pregnanti, lucide e soprattutto oneste bisogna tornare indietro di oltre un secolo, rifacendosi innanzitutto a Marx e, in un secondo tempo, a Lenin. Quest’ultimo, però, inserisce il tutto in un’analisi più ampia che in parte esula dalla nostra trattazione.
Semplificando all’estremo, per Marx la formazione dei monopoli è uno dei meccanismi più basici del capitalismo e segue una dinamica abbastanza semplice. Le imprese sono in continua concorrenza tra loro per ampliare la propria fetta di mercato e cercano costantemente di abbassare i prezzi comprimendo i costi. Quelle che non riescono a farlo sono gradualmente costrette a cessare la loro attività, cosicché il numero totale di attori economici per settore tende a ridursi. Con il tempo, il processo si generalizza portando alla formazione dei monopoli.
L’analisi dello studioso tedesco considera poi molti altri meccanismi. Il più rilevante è senz’altro l’accumulo del capitale, ma vanno citate quantomeno anche le economie di scala e le barriere all’entrata conseguenti all’accumulo del capitale.
In ogni caso, al di là della complessità di questi aspetti, secondo l’analisi marxista il monopolio rappresenta una tendenza inevitabile del capitalismo. E’ una sua caratteristica strutturale.
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Alla luce di tale analisi, appare evidente che siamo di fronte a un fenomeno inquietante. Le imprese monopoliste, infatti, possono decidere in totale libertà i prezzi praticati per i propri prodotti o servizi. E purtroppo, senza pensare necessariamente ai già citati GAFAM, basta guardare le cose senza pregiudizi per vedere che la formazione dei monopoli è in atto dovunque.
Gli esempi abbondano. Si può pensare alla scomparsa dei piccoli negozi di alimentari in favore dei grossi supermercati, alla concentrazione delle terre agricole nelle mani di pochi proprietari o ancora alle continue fusioni nel settore automobilistico e in quello farmaceutico.
La situazione è simile in tutti i paesi occidentali, con differenze che dipendono soprattutto dal livello di affermazione della cultura capitalista in ogni singolo contesto. Cosa che poi, a sua volta, è influenzata da numerosi fattori storici, sociali e culturali.
Tanto per fare un esempio, i piccoli negozi di alimentari continuano a essere ancor’oggi molto più diffusi in Italia rispetto alla Francia, così come le nostre imprese agricole o artigianali sono di dimensioni molto più piccole rispetto a quelle dei nostri vicini. Il che si deve in gran parte alla geografia, alla demografia, alle strutture familiari e al modo di concepire le relazioni personali.
Senza sorprese, la dinamica di formazione dei monopoli è invece molto avanzata negli Stati Uniti, dove i meccanismi che frenano la libertà delle imprese sono oggi praticamente assenti e, allo stesso tempo, l’opinione pubblica è da sempre molto fiduciosa nei confronti dei mercati.
In questo paese, ormai, l’estremo livello di concentrazione dei mercati determina problemi così evidenti che non possono essere negati nemmeno dai più strenui difensori del capitalismo 3.
Il primo di essi è, appunto, il maggiore costo praticato per svariati beni e servizi. Un caso molto studiato è quello degli abbonamenti internet, e in particolare dell’alta velocità, qui intesa come superiore a 25 Mbps. Il costo mensile di tale servizio era, nel 2017, di 66,17 dollari negli USA, di 38,10 dollari in Francia, di 35,71 dollari in Germania e di 29,90 dollari in Corea del Sud 4. Tariffe competitive rispetto agli Stati Uniti si riscontravano in molti altri paesi industrializzati.
Si può obiettare che, per fare un raffronto corretto, bisogna considerare anche altri fattori. Questo è innegabile. In primo luogo, si deve ragionare in termini di costo per Mb, perché la qualità del servizio, cioè la velocità, varia da paese a paese. Tuttavia, anche usando questa metrica, le cose cambiano poco. La terza tabella riportata da questa pagina, basata su dati del 2014, mostra che il costo per Mb nei paesi sopraccitati è di 0,43, 0,26, 0,31 e 0,12 dollari.
In secondo luogo, bisogna correggere i valori in funzione del costo della vita, cosa di fatto non molto semplice. Combinando i dati di alcuni siti internet 5 e dando per inevitabile un certo livello di approssimazione, si evince che, tra i quattro paesi considerati, la differenza del costo della vita calcolato sui beni di consumo potrebbe oscillare tra il 5% e il 15%, una percentuale quindi comunque non sufficiente a inficiare il ragionamento.
Negli Stati Uniti, situazioni analoghe si riscontrano in numerosissimi altri settori, come ad esempio nel caso degli abbonamenti a telefoni cellulari o in quello delle compagnie aeree.
Oltre agli aumenti dei costi di beni e servizi, i monopoli determinano anche l’insorgenza di altre problematiche. Un fenomeno di rilievo, ad esempio, è la formazione di monopsoni, ovvero situazioni di mercato caratterizzate dalla presenza di un solo acquirente. Ciò che accade, in sostanza è che, quando un’impresa assume una dimensione troppo grossa, può decidere in modo libero il livello delle retribuzioni nel proprio settore, giacché ai suoi impiegati restano poche opzioni alternative. Ancora una volta, è una situazione molto frequente negli Stati Uniti.
E ci sono altri risvolti ancora. La contrazione del numero di imprese di un certo ambito, ad esempio, determina per definizione la conversione di molti impresari in salariati, i quali tendono a percepire retribuzioni minori. Ciò determina ovviamente un aumento delle disuguaglianze.
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Ragionare sui monopoli è importante anche perché ci permette di riflettere su un altro aspetto. A partire dai primi anni del novecento, infatti, il capitalismo ha preso la figura dell’imprenditore, di per sé già centrale al suo impianto ideologico, e lo ha messo letteralmente su un piedistallo, elevandolo a una sorta di eroe e ammantandolo quasi di un’aurea di sacralità.
In tale senso, un economista che ha giocato un ruolo particolarmente rilevante è l’austriaco Joseph Schumpeter (1883-1950), che ha sviluppato anche una sua propria teoria sui monopoli. Vista la peculiarità del suo approccio, tuttavia, preferisco non trattare qui l’argomento.
Negli ultimi decenni, però, gli americani ci hanno messo tutta la loro propria capacità di storytelling e di drammatizzazione per creare un’iconografia senza precedenti. In questo senso, basta pensare al fare ieratico di Steve Jobs, una delle prime incarnazioni di questo personaggio.
Secondo questa narrazione, mentre tutti gli altri comuni mortali vivono come parassiti timorosi, l’imprenditore è un capitano coraggioso che sfida le avversità dei mercati a testa alta, sicuro e fiero di lottare da solo contro tutto e contro tutti.
Ora, non voglio certo sminuire la complessità del lavoro degli imprenditori, né tanto meno sottovalutarne la durezza in termini di affaticamento e di tensione. Mio padre era un piccolo artigiano, e ricordo bene quali ritmi e quali difficoltà dovesse sopportare. Tuttavia, santificare una qualsiasi figura professionale con così tanta dogmaticità è evidentemente un errore.
Ed è proprio la formazione dei monopoli che ci permette di desacralizzare questa raffigurazione dell’uomo d’affari. Il quale, nel momento in cui si converte in monopolista, può approfittare della situazione imponendo i suoi prezzi e le sue condizioni. Convertendosi così in un parassita della società. Oppure, con un termine che suona più elegante, in un rentier.
Tra un eroe coraggioso e un parassita c’è parecchia differenza. Certo, coloro che idolatrano il libero mercato diranno che il monopolista si gode il meritato riposo dopo una vita di fatiche inenarrabili e di conquiste ottenute solo con il proprio sudore. Il fatto di aver faticato, però, non può essere un argomento valido per giustificare il fatto di comportarsi da parassita. E poi, sostenere che a questo mondo gli imprenditori sono i soli a lavorare davvero è semplicistico e, francamente, anche piuttosto ingiusto.
Ma c’è di peggio. Allo stato attuale delle cose, i monopoli non si formano solo per la naturale tendenza insita nel capitalismo, ma anche perché gli imprenditori mettono in atto tutte le strategie possibili per favorirne la creazione. Anche qui gli americani sono grandi maestri, sia nell’immaginare le tattiche più efficaci, sia nel descriverle nel modo più preciso.
Il caso più lampante, infatti, ci viene fornito proprio da uno dei GAFAM, ovvero Amazon. Questa impresa vende su internet prodotti di ogni tipo a prezzi irrisori, spesso inferiori a quelli di mercato, e li spedisce poi a prezzi altrettanto irrisori. In questo modo, mette fuori gioco tutti gli altri attori del mercato e si apre la strada per costituire un monopolio di vastissime proporzioni.
E, di fatto, questa azienda finora si è retta in piedi non tanto grazie alle vendite, quanto piuttosto grazie a un’attività totalmente diversa e meno nota al grande pubblico, cioè l’offerta di servizi di cloud computing. E, forse ancora di più, grazie al sostegno degli azionisti, i quali sanno bene che, quando l’azienda sarà effettivamente un monopolio, i prezzi li potrà decidere come vuole.
La strategia commerciale adottata da Amazon viene definita dumping interno. Si tratta di una forma particolare di dumping applicato non al mercato internazionale, ma a quello nazionale.
Il dumping, nell’accezione più generale, è una pratica condannata come forma di concorrenza sleale. Tanto per fare un esempio, è una delle principali accuse mosse nei confronti della Cina. Andando più in dettaglio, è possibile trovare una grande varietà di punti di vista in merito a come definire esattamente il fenomeno. Si tratta però di discussioni che vertono soprattutto su aspetti tecnici e legali e che, quindi, finiscono per non centrare il nocciolo della questione.
Ora, questo tanto vituperato comportamento è stato adottato da Amazon oramai da molti anni, costringendo un numero sempre maggiore di piccole e medie imprese a chiudere i battenti.
I clienti, per ora, sono sedotti un po’ ingenuamente dai prezzi attrattivi e dai tempi di consegna rapidissimi. Non riescono però a vedere che, in un futuro non troppo remoto, questi stessi prezzi potrebbero esplodere. Oppure che, guardando le cose da una prospettiva diversa, il sistema di distribuzione sotteso a tale modello è del tutto insostenibile dal punto di vista ambientale.
Un altro caso di cui si parla molto negli Stati Uniti è quello dell’industria della carne, che da più di un secolo fa ricorso sistematicamente a varie forme di corruzione per far adottare dai governi provvedimenti volti ad agevolare il consolidamento di posizioni monopolistiche.
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A questo punto, per avviarci alla chiusura, mi sembra interessante citare anche i commenti fatti a più riprese dal ricercatore spagnolo Santiago Niño Becerra. Si tratta di un economista poco conosciuto a livello internazionale, ma che invece è molto famoso nel suo paese per aver pubblicato una serie di libri divulgativi che spiegano i meccanismi della crisi del 2008.
Da un punto di vista generale, l’impostazione di fondo di Becerra non la condivido, perché presenta la realtà economica come se fosse del tutto inevitabile. Crede fermamente, in altre parole, nel determinismo economico, come peraltro gran parte degli economisti.
Al di là di questo grave limite, tuttavia, i lavori dello studioso descrivono in modo molto incisivo il sistema capitalista e ne mettono a nudo alcuni meccanismi con una chiarezza non comune.
Quello che scrive sui monopoli è di una lucidità esemplare. Afferma, senza mezzi termini, che il capitalismo tende verso il monopolio per sua natura, perché segue la filosofia del “The winner takes it all”. Certo, questo modo di spiegare le cose non si sofferma a considerare tutte le dinamiche descritte da Marx, però dà comunque una descrizione esatta della realtà.
Insomma, detto con altre parole, nel sistema capitalista l’importante non è partecipare, ma vincere, e tutti coloro che perdono sono esclusi in modo categorico dai vantaggi spettanti al primo arrivato. Si tratta, quindi, di una mentalità intrinsecamente non distributiva.
Questa logica non si applica solo alla competizione tra imprese, ma anche ad altri contesti, come esempio quello geografico. Il crescente divario tra città e campagne si deve in gran parte allo schiacciante successo delle realtà urbane nel sistema capitalista.
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Cerchiamo di tirare qualche conclusione. Che la formazione dei monopoli sia quasi sempre un problema è fuori discussione. Che poi i monopoli si formino per spontanea tendenza del capitalismo, mi sembra altrettanto fuori discussione.
Se gli europei riconoscono con molta più difficoltà degli americani quanto sia problematica questa dinamica, ciò accade semplicemente perché, al di qua dell’oceano, il fenomeno è molto meno avanzato. Cosa che poi si applica anche nel caso dei tagli al welfare e a molti altri aspetti. Negli USA, invece, i monopoli sono in avanzatissimo stato di formazione, il che, come già spiegato, dipende da vari fattori. Tra questi c’è un quadro legale nettamente più favorevole, come nel caso delle normative antitrust o nel caso delle leggi che regolano le attività di lobbying.
Questo ci porta all’ultima riflessione. Il fatto che la legge favorisca la proliferazione dei monopoli in America può indurre a pensare che il problema vada risolto essenzialmente in sede legislativa.
La cosa, in parte, è certamente vera, e storicamente è proprio il caso degli Stati Uniti che lo dimostra. In questo paese, infatti, nel 1890 fu votata la prima legge antitrust, ovvero lo “Sherman Antitrust Act” il quale, nel 1911, fu impugnato per smembrare la “Standard Oil” e la “American Tobacco Company”. L’attivismo dimostrato negli ultimi dalla “Direzione generale per la concorrenza” nell’ambito della Commissione Europea va in una direzione simile.
Purtroppo, però, se la formazione dei monopoli è una tendenza inarrestabile del capitalismo, l’azione legale può solo ritardarla, o agire ciclicamente inseguendo le evoluzioni del mercato. Il problema di fondo è la competizione, che sta alla base del sistema e che da esso è portata all’estremo e innalzata a valore sacro, ovviamente minimizzandone ogni effetto negativo.
- In merito, si consulti ad esempio questo sito
- “GAFAM” è un acronimo che sta per “Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft”, ovvero cinque tra le più potenti aziende tecnologiche americane, spesso portate come esempi di monopoli.
- Si veda, ad esempio, un articolo come questo.
- Si veda questo sito, i cui dati fanno riferimento ai lavori dell’economista Thomas Philippon.
- Si può fare riferimento, ad esempio, a Numbeo o a Expatistan.