Uno sguardo diverso

6. Non c’è un bene che non sia anche un male

© Tutti i diritti riservati all’autore | Marco Moroldo febbraio 2020

 

La crisi economica del 2008 ha rappresentato uno degli avvenimenti più rilevanti degli ultimi trent’anni. La sua intensità, la sua durata e la vastità delle conseguenze politiche e sociali sono impossibili da minimizzare. Per la maggior parte di noi, questo momento storico ha determinato un peggioramento delle condizioni economiche e lavorative, un aumento del senso di precarietà e una maggiore ansia nei confronti del futuro.

Ciò nonostante, guardando le cose da un’altra prospettiva, non si può negare che questa crisi abbia portato anche qualcosa di buono. Di fatto, dopo un lungo periodo di apatia, molte persone hanno ricominciato a interessarsi alla politica. Si sta lentamente sviluppando una nuova forma di consapevolezza e la critica nei confronti del monolitismo del sistema capitalista si sta facendo un po’ più frequente.

Certo, è troppo presto per dire se si tratta solo di una tendenza superficiale e transitoria, o se si tratta invece dell’inizio di una riflessione più profonda e suscettibile di sviluppi duraturi. I processi che hanno portato al potere i partiti neoconservatori all’inizio degli anni ‘80 sono ancora pienamente all’opera e, in molti casi, stanno anzi accelerando in modo deciso l’aggressione nei confronti della democrazia.

D’altra parte, la generazione che ha innescato questa dinamica storica è ancora largamente prevalente dal punto di vista demografico (si tratta, nei fatti, dei baby boomers) e, di conseguenza, sbilancia fortemente i rapporti di potere a proprio vantaggio. Inoltre, al momento non ci sono ancora intellettuali capaci e disposti a contribuire davvero a un rinnovamento culturale e ideologico. Insomma, la situazione non è semplice.

Ciò nonostante, è quantomeno sorprendente il fatto che Bernie Sanders, candidato alle elezioni presidenziali 2020 degli Stati Uniti, possa dichiararsi oggi apertamente socialista in un paese che ha conosciuto un fenomeno come il maccartismo. Così come è notevole, sempre al di là dell’oceano, il rinnovato interesse nei confronti dei sindacati in un contesto ne limita aggressivamente l’influenza. Di fatto, negli Stati Uniti 485.000 persone hanno partecipato a scioperi nel 2018, la cifra più elevata dal 1986 1. Insomma, la crisi ha cominciato, almeno in parte, a risvegliare le coscienze. Credo che questo sia il suo lascito positivo più importante.

In questo senso, parafrasando un proverbio della mia terra di origine, ovvero il Friuli, si potrebbe dire che ‘Non c’è un male che non sia anche un bene’ 2. I friulani usano questo modo di dire in modo fatalista, esprimendo la necessità di fare buon viso a cattivo gioco di fronte ai rovesci della sorte, mentre il caso della crisi del 2008 implica una connotazione un po’ diversa. Il concetto di fondo, tuttavia, non cambia.

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Torniamo però adesso ad analizzare un po’ più in dettaglio in che modo la crisi del 2008 ha inciso sul discorso pubblico. I media hanno posto la loro attenzione su molti aspetti diversi, ma si può senz’altro affermare che una delle tesi sostenute più spesso è la necessità di tornare a politiche economiche di tipo keynesiano.

Secondo John Maynard Keynes (1883-1946), l’insorgenza delle crisi economiche dipende essenzialmente dalla contrazione della domanda aggregata 3, che abbassa il livello di occupazione ponendo le basi per un’ulteriore riduzione della domanda stessa. In questa ottica, le crisi vanno risolte con l’intervento statale, che deve stimolare la domanda con politiche tese, appunto, a ridurre la disoccupazione 4. Tale funzione di sostegno si mantiene anche al di là dei periodi di crisi, divenendo così caratteristica fondante del modello.

Per sorreggere la domanda aggregata, Keynes dà grande enfasi alla ridistribuzione dei redditi. L’obiettivo è evitare uno squilibrio eccessivo a favore dei più ricchi, perché la propensione marginale al consumo decresce all’aumentare del reddito. In altre parole, i ricchi consumano in proporzione meno dei poveri e quindi, se i redditi si sbilanciano troppo a favore di questa categoria sociale, la domanda aggregata si riduce.

La ridistribuzione dei redditi viene perseguita attraverso varie strategie, come la tassazione progressiva o l’offerta di servizi gratuiti come scuole e assistenza sanitaria, ovvero con lo sviluppo del welfare. Un’ulteriore serie di interventi è poi indirizzata alla stabilizzazione dei mercati, in particolare regolamentando la finanza.

Questa impostazione ha dominato l’economia per una trentina d’anni dopo la seconda guerra mondiale e, da alcuni punti di vista, ha avuto un successo impressionante. Per brevità, considererò solo tre aspetti. In questo periodo, l’Europa occidentale ha conosciuto un tasso di crescita medio del 4-5 % e una fortissima riduzione del coefficiente di Gini 5. Nello stesso periodo, poi, il numero di crisi bancarie è stato molto contenuto – anche se, in questo caso, entrano in gioco anche altri elementi economici e politici. Il modello keynesiano è stato gradualmente abbandonato a partire dalla fine degli anni ‘70, quando si è imposto il neoliberismo, dottrina che è diventata così egemonica da cancellarlo del tutto dal dibattito pubblico.

A onor del vero, va aggiunto che il nesso tra il keynesianismo e i risultati econometrici del dopoguerra potrebbe non essere necessariamente così lineare. Un economista chiaramente di sinistra come Thomas Piketty, ad esempio, pur non negando gli effetti delle politiche redistributive, afferma che la forte crescita del dopoguerra è spiegata in larga parte dall’effetto di recupero dell’economia dopo una depressione, nel caso specifico rappresentata dalle due guerre mondiali, nonché dal contributo della crescita demografica.

E’ chiaro comunque che, rispetto al contesto attuale, si è trattato quasi di una sorta di paradiso, da un certo punto di vista. I francesi, particolarmente nostalgici nei confronti di questa epoca, non a caso parlano delle ‘trente glorieuses’. E’, ovvio, quindi, il desiderio di provare a ripercorrere lo stesso cammino.

Ora, al di là del fatto che il contesto è molto diverso, e che quindi non sarebbe facile applicare le stesse ricette del passato, l’approccio di Keynes potrebbe senz’altro apparire come una buona idea, almeno in una prospettiva di tipo riformista. Prospettiva che, ovviamente, può essere ampiamente contestata, perché non è affatto detto che il riformismo sia la strada giusta. E, d’altra parte, interventi di ispirazione keynesiana sono stati ad esempio alla base del Recovery Act adottato dall’amministrazione Obama nel 2009.

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Il punto, però, è un altro. E cioè, che il keynesianismo presenta purtroppo dei limiti difficili da ignorare e che, proprio in questi ultimi anni, sono emersi in tutta la loro gravità. Il fatto di attribuire importanza centrale al sostegno della domanda aggregata ha inevitabilmente favorito la diffusione del consumismo e del materialismo, con tutte le conseguenze negative che ciò ha avuto sulla società. Il consumismo, poi, ha avuto un impatto devastante sull’ambiente, che ha portato gradualmente all’attuale crisi ecologica.

Insomma, la dottrina di Keynes ha avuto meriti senz’altro difficili da minimizzare, ma farne un modello di riferimento assoluto o una sorta di panacea non è certo corretto. Riprendendo la parafrasi utilizzata all’inizio di questo articolo, viene naturale concludere che ‘Non c’è un bene che non sia anche un male’.

 

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1 Queste cifre vanno messe nel giusto contesto. Per cultura, gli Stati Uniti non sono certo un paese tanto aperto nei confronti degli scioperi quanto lo è, ad esempio, la Francia. Per dare un’idea di queste differenze, basta pensare al fatto che in un solo giorno (il 5 dicembre 2019) sono scesi in piazza 800.000 francesi che scioperavano contro la riforma del sistema pensionistico. Negli anni ’70, negli Stati Uniti il numero di scioperanti annuali non ha mai superato i tre milioni. Quindi, 485.000 persone è un numero rilevante.

2 Nella sua versione originale, in lingua friulana, tale proverbio recita così: ‘Nol è un mâl che nol sedi ancje un ben’. Di fatto, corrisponde in modo piuttosto preciso al proverbio italiano ‘Non tutto il male viene per nuocere’, ma rispetto a quest’ultimo implica una rassegnazione che è tipica della mentalità dei friulani.

3 La domanda aggregata rappresenta la domanda di beni e servizi formulata da un sistema economico nel suo complesso.

4 In altre parole, guardando la cosa nell’ottica della curva di Phillips, le politiche keynesiane privilegiano sempre la piena occupazione rispetto al controllo dell’inflazione

5 Il coefficiente di Gini è un indice spesso utilizzato per misurare la disuguaglianza dei redditi. E’ un numero compreso tra 100 e 0 (o tra 1 e 0), in cui 100 (o 1) rappresenta la massima disuguaglianza possibile. Si veda, in proposito, il caso della Francia.

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