Uno sguardo diverso

7. Quando il saggio indica la luna…

© Tutti i diritti riservati all’autore | Marco Moroldo luglio 2020

 

Non è necessario un particolare acume per constatare che, in seguito alla sua elezione a presidente degli Stati Uniti, Donald Trump è stato capace di monopolizzare con estrema efficacia il discorso pubblico, convertendosi rapidamente in uno degli argomenti preferiti dai mezzi di comunicazione.

La cosa, di per sé, non è sorprendente. Da un lato, gli Stati Uniti sono il paese più potente al mondo, ed è normale che chi ne è a capo sia sempre sotto i riflettori. Dall’altro, i media adorano i personaggi pubblici che vendono bene. E Trump, peraltro, era noto alla cronaca anche prima della sua elezione.

E così, da quattro anni, le televisioni e i giornali forniscono ogni giorno un elenco precisissimo di tutto ciò che questo uomo politico dice, fa o scrive sulle reti sociali. Registrano tutti i suoi continui cambi di opinione in materia di politica estera e descrivono punto per punto le varie proposte avanzate.

Alcuni commentatori sottolineano l’obiettiva gravità delle frequenti uscite sessiste o razziste. Altri, invece, si soffermano su aspetti più terra a terra, come gli strafalcioni presenti nei tweet. Spesso vengono fornite sommarie analisi psicologiche, che cercano di identificare le possibili patologie che lo affliggerebbero. Il “narcisismo perverso” sembra una delle diagnosi più frequenti.

A prescindere dalla gravità delle frasi o dei singoli fatti, poi, tali resoconti sono in genere accompagnati da commenti dai toni indignati, allibiti, o ancora sarcastici. E, quasi sempre, carichi di pathos.

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Lo ripeto, tutto questo teatro messo in piedi dai media a fini commerciali non rappresenta niente di nuovo. Dopodiché, è chiaro che è normale indignarsi di fronte alla crudeltà o all’insensatezza di alcune uscite. E, infine, sembra anche piuttosto probabile che la personalità di Trump possieda davvero una componente narcisistica particolarmente spiccata.

Il punto, però, è un altro. Analizzare l’azione di un politico soffermandosi di volta in volta su singoli episodi, su fatti specifici o su serie infinite di dettagli ha conseguenze gravi. Perché fa perdere la visione d’insieme della questione, che è ciò che conta davvero. E il problema, in questo senso, non riguarda solo le riviste di gossip, bensì anche giornalisti in genere seri e autorevoli.

Concentrarsi su particolari tra loro slegati vuol dire, quasi inevitabilmente, restare alla superficie dei fatti. Equivale, in questo caso, a svuotare completamente l’azione del governo Trump del suo significato politico, che invece è di primo rilievo.

Guardando con più attenzione, è infatti facile rendersi conto che il trumpismo si iscrive in una linea di pensiero ben precisa, e segue una strategia molto meglio definita di ciò che potrebbe sembrare.

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Facciamo solo un paio di esempi concreti. Il primo, più visibile e più macroscopico, è la riforma fiscale approvata nel 2017. Si tratta di una legge che segue alla lettera i dettami dell’ideologia neoliberista, giacché abbassa in modo consistente le aliquote massime per le famiglie più ricche e per le imprese. Una legge che rende quindi il fisco americano ancora più regressivo e meno equo. E che aumenta in modo consistente il debito pubblico, facendo così da cavallo di Troia per nuovi tagli allo stato sociale.

Questa non è né l’opera di un pazzo, né di un narcisista. E’ un provvedimento in perfetta sintonia con ciò che viene predicato da quarant’anni dalle destre. Negli Stati Uniti, la prima riforma fiscale volta a ridurre le aliquote massime per i più abbienti fu approvata da Ronald Reagan nel 1981.

In seguito, Reagan approvò altre riforme che abbassarono ulteriormente le aliquote, ma che in parte compensarono la perdita di gettito in altri modi. Anni dopo, George W. Bush introdusse ancora altre modifiche alla fiscalità, soprattutto nel 2001 e nel 2003. E le aliquote furono abbassate di nuovo.

In tutti i casi, i tagli delle tasse furono giustificati ricorrendo a concetti oggi molto cari ai neoliberisti, come le “curve di Laffer” o la teoria del “trickle down”. Concetti che dovrebbero dimostrare in modo inoppugnabile che l’elargizione di benefici ai ricchi avvantaggia la società nel suo insieme. Non c’è niente di meno certo.

Quello che invece è certo, perché misurabile, è che i provvedimenti di Reagan, Bush e Trump hanno aumentato in modo estremo i patrimoni dei più facoltosi, riducendo al contempo in modo drastico il welfare. D’altra parte, l’ideologia che li sottende è chiara: è naturale e giusto che ci sia una forte disuguaglianza tra l’élite e le masse. L’attuale governo americano la sottoscrive in pieno.

Un secondo aspetto, senza dubbio molto meno conosciuto al di qua dell’oceano, ma potenzialmente ancora più grave rispetto alla riforma fiscale, riguarda l’estrema incisività dell’azione del governo Trump per quanto riguarda le nomine dei giudici delle corti.

Nel sistema giudiziario americano, i giudici delle corti dei diversi gradi, cioè dalla corte suprema fino a quelle distrettuali, sono nominati direttamente dal presidente, con successiva ratifica del senato. La cosa più rilevante, però, è che i giudici di tali corti, con poche eccezioni, sono nominati a vita.

Ora, in questo ambito, l’attività del governo Trump è stata a dir poco frenetica. Ad esempio, nel caso delle sole corti di appello, il presidente ha confermato in tre anni 50 giudici, mentre Obama ne aveva confermati solo 55 nell’arco di otto anni. Cifre simili riguardano anche le altre corti.

Il senso strategico di questa alacrità è chiaro. I giudici, di fatto, fanno politica, soprattutto in un sistema giuridico come quello degli Stati Uniti e in un contesto polarizzato come quello attuale. Scegliere giudici molto schierati ideologicamente, cioè molto conservatori, è fondamentale per lasciare un’impronta nel paese.

Tanto più che, siccome le nomine sono a vita, l’influenza di questi pubblici ufficiali dura molto al di là del mandato di un presidente. Di fatto, c’è chi ritiene che, oggi, la scelta dei giudici sia uno dei provvedimenti più rilevanti che possa prendere il presidente degli Stati Uniti.

Ci sarebbero numeri altri esempi, tutti di grande importanza, basti solo pensare all’attacco nei confronti dell’Obamacare o dell’agenzia dell’ambiente (EPA). Ho scelto di non occuparmene qui per non appesantire troppo la discussione.

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Vorrei però aggiungere ancora alcune considerazioni. Secondo molti commentatori, lo stile e i modi di Donald Trump sarebbero così volgari, aggressivi ed eccessivi da costituire una rottura drastica rispetto ai predecessori. Uno scadimento senza precedenti, insomma, di fronte al quale sarebbe impossibile non restare sgomenti. A mio avviso, questa visione va relativizzata.

Non nego che gli stili di Trump e di Reagan, ad esempio, siano diversi. Tanto per cominciare, però, va detto che lo stile è in gran parte un aspetto superficiale, almeno in un caso come questo. Dopodiché, le differenze tra questi due politici non si devono tanto a motivi ideologici, quanto piuttosto al mutato contesto culturale e alla graduale messa a punto, per così dire, degli strumenti di marketing utilizzati.

Reagan era il primo politico che veniva dal mondo dello spettacolo, e incoraggiò in tutti i modi uno stile di vita basato sull’edonismo. Ma era pur sempre nato in un’epoca ancora molto influenzata dal perbenismo borghese. Nei fatti, però, era un conservatore di ferro, che non esitava a usare la violenza per ottenere i propri obiettivi.

Non c’è rottura tra Trump e i suoi predecessori. C’è piuttosto un filo conduttore, che comincia appunto con Reagan e prosegue fino a Trump. Passando per personaggi dimenticati, come Sarah Palin, e per personaggi che sono invece diventati estremamente influenti, come Newt Gingrich.

Quest’ultimo è particolarmente poco noto in Italia, ma ha un ruolo di prim’ordine nel panorama della destra americana. E’ stato colui che, nell’arco di alcuni decenni, ha progressivamente definito lo stile di comunicazione e di comportamento attualmente adottati da Trump. Trasformando, ad esempio, lo stato di confusione perenne e la polarizzazione in armi politiche indispensabili per il suo partito.

D’altra parte, non è certo una novità che il caos funzioni benissimo per distrarre il pubblico dalle questioni davvero importanti, per confonderlo, stancarlo, nausearlo e allontanarlo dalla politica. E qui torniamo a quanto già detto e spiegato.

Gli italiani, peraltro, questi meccanismi li dovrebbero conoscere bene, visto che per un paio di decenni Silvio Berlusconi ha seguito esattamente lo stesso copione.

In ogni caso, Trump è solo una comparsa. Chi conta davvero è il partito repubblicano con i suoi ideologi, i suoi potentissimi “think tank”, le lobby che lo finanziano e i gruppi religiosi che lo appoggiano. Non si può però negare che sia un ottimo interprete del copione che gli viene suggerito.

Mi pare chiaro che, dietro al gossip che accompagna continuamente il presidente degli Stati Uniti, di carne al fuoco ce n’è molta, se solo ci si vuole fermare un po’ a ragionare. In questo caso, però, sembra che valga proprio alla lettera il proverbio cinese che recita che “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”.

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