Uno sguardo diverso

5. A chi fa comodo la solitudine

© Tutti i diritti riservati all’autore | Marco Moroldo ottobre 2019

 

Che la solitudine sia uno dei problemi più gravi del mondo moderno è ormai un’evidenza innegabile. E’ un argomento al quale, ultimamente, è stato dato ampio spazio da tutti i mezzi di comunicazione, anche se di norma in modo superficiale. La problematica è diffusa in tutto l’occidente, ma pare essere particolarmente sentita in alcuni paesi, primi tra tutti quelli anglosassoni.

Negli Stati Uniti, ad esempio, sono di moda i siti che insegnano come farsi nuovi amici. Seguendo la tendenza americana alla semplificazione estrema dei problemi e alla classificazione di qualunque fenomeno in modo rigidamente tassonomico, vengono di volta in volta identificati gli elementi (di solito tre o quattro) necessari per fare conoscenze. Elementi che, spesso, vengono addirittura inseriti in formule di tipo matematico.

Un altro caso clamoroso è quello della Gran Bretagna. Il governo di questo paese, nel 2018, ha deciso di creare nientedimeno che il “Ministero della solitudine”. Di primo acchito, la cosa appare così ingenua e inappropriata da suscitare, ancor più che perplessità, quasi un senso di ilarità. Tuttavia, al di là delle reazioni più immediate, questa iniziativa è spia di un malessere ampiamente diffuso nella società.

Approfitto per fare una breve considerazione su questo tipo di approcci. In generale, credo che agire sui sintomi lasci sempre il tempo che trova. Può avere al massimo un’efficacia temporanea, ma ha un impatto modesto sul medio termine. La soluzione vera ai problemi sta nell’identificazione delle loro cause profonde, ed è solo a partire da lì che si possono trovare soluzioni reali e durature.

Agire alla radice dei problemi, tuttavia, necessita di uno sforzo ben maggiore rispetto al trattamento dei sintomi. In primo luogo, perché richiede la comprensione di dinamiche che sono, per forza di cose, sempre complesse. In secondo luogo, perché obbliga a guardare i problemi in faccia, il che implica sofferenza e richiede quindi coraggio.

E, purtroppo, oggi il coraggio è merce rara. La società allontana in tutti i modi la sofferenza dall’esperienza quotidiana, basti vedere quali sono le tendenze relative all’educazione dei figli o alla scuola. Ironicamente, però, allontanando di continuo la sofferenza, si pongono le basi per un malessere ancora più profondo.

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Ora veniamo a noi. La solitudine, di fatto, si può ritenere conseguenza pressoché inevitabile del sistema di produzione capitalista, come i lavori di Erich Fromm avevano già messo in evidenza quasi un secolo fa. Tale nesso si estrinseca essenzialmente attraverso l’individualismo, che è necessario per garantire la competizione tra individui, e che è a sua volta uno dei principi fondanti del capitalismo stesso.

Ed è ovvio che la competizione rende difficile, se non impossibile, instaurare rapporti profondi e disinteressati con il prossimo. Le persone sono costantemente impegnate a ragionare in termini di vantaggio personale, che diventa il metro per giudicare qualsiasi tipo di relazione. Dall’ambito lavorativo, tale postura mentale si generalizza a ogni ambito della vita.

I vicini di casa vengono guardati con sospetto, perché potrebbero competere per gli spazi comuni, si trattasse anche solo di un parcheggio o di un marciapiede. I conoscenti, gli amici e persino i familiari, anziché essere visti come portatori di legami affettivi indispensabili, diventano zavorre insopportabili, che fanno solo perdere tempo con richieste d’aiuto e di sostegno.

In questa prospettiva, si capisce che non è un caso se i paesi anglosassoni soffrono in modo particolare a causa della solitudine. Se ci soffermiamo a guardare gli ultimi quarant’anni di storia, possiamo osservare con facilità che la Gran Bretagna e gli Stati Uniti sono i due paesi dove la controrivoluzione neoliberista è stata sferrata con la massima violenza, attaccando i diritti dei lavoratori in modo diretto e promuovendo a tutti i livelli comportamenti individualisti ed egoisti.

Ma è chiaro che spiegare l’individualismo anglosassone solo attraverso il recente tornante neoliberista sarebbe superficiale. Il fatto è che tutte le nazioni appartenenti a questa civiltà sono particolarmente predisposte alla competizione per ragioni culturali, il che va ben al di là degli eventi dei primi anni ‘80. Anzi, se qui la rivoluzione neoliberista ha potuto attecchire in modo particolarmente efficace, lo si deve proprio alla presenza di un humus molto favorevole.

Nel caso degli Stati Uniti, uno dei pilastri fondamentali della cultura nazionale è il mito del “self-made man”, ovvero l’uomo che si fa strada nella vita lottando da solo contro tutti. Questa mitologia è senza dubbio legata in buona parte all’esperienza dei primi coloni, che non potevano contare né sull’aiuto dello stato, né su quello di una qualsiasi comunità.

Ma la propensione all’individualismo trova radici molto più antiche e profonde nel paese di provenienza di questi primi coloni, ovvero l’Inghilterra, che può di fatto essere considerata la patria stessa del capitalismo, e dove, a parere di alcuni storici, sarebbe possibile tracciarne le origini sociali e filosofiche addirittura già nel periodo immediatamente successivo al medioevo.

In tempi più recenti, questa mitologia è stata poi diffusa in tutti i modi possibili dai mezzi di comunicazione di massa, e l’industria cinematografica americana, con la solita ed innegabile potenza visiva, ha dato il contributo più significativo. Gli eroi dei film di Hollywood sono molto spesso dei self-made man, e questo indipendentemente da quale sia il loro ruolo sociale e da come si strutturi la parabola della loro esistenza. In merito, basta pensare a personaggi emblematici della cultura pop, come Rocky o Tony Montana in Scarface.

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Quello che mi interessa qui, però, è un altro aspetto. Non voglio discutere la solitudine come conseguenza del capitalismo, quanto piuttosto come elemento determinante per favorire la sopravvivenza di questo sistema. E, in particolare, quella delle élite che ne dominano la struttura.

Ora, anche se la solitudine è implicitamente costitutiva dell’impianto ideologico capitalista, probabilmente è corretto dire che tale ideologia non l’ha mai promossa in modo esplicito. Tuttavia, indipendentemente da ciò, il sistema si è gradualmente auto-organizzato, trovando nella solitudine degli individui un elemento utile al suo mantenimento. Farò solo un paio di esempi relativi agli aspetti che mi colpiscono di più.

Il primo è anche il più ovvio. Il fatto che gli individui siano più soli, che abbiano meno amici e meno contatti con gli altri, li porta anche a perdere la capacità di stringere eventuali legami nuovi e di condividere idee e esperienze. Mettere da parte l’interesse personale immediato per aspirare a conquiste più importanti, che possono essere ottenute solo in modo collettivo, diviene pertanto impossibile.

Più le persone sono divise e più pensano solo al loro tornaconto, meno riescono a contrastare il potere. E’ un’evidenza così palese da essere quasi lapalissiana. La si può guardare da molte prospettive diverse, pensando, ad esempio, al concetto di guerra tra poveri o al “divide et impera” dei romani.

Ma il caso più significativo, dal punto di vista socioeconomico, riguarda i sindacati. Nei paesi che hanno seguito le teorie macroeconomiche di stampo keynesiano, queste istituzioni hanno giocato per decenni un ruolo chiave nella protezione dei lavoratori. A partire dalla fine degli anni ’70, però, il loro potere si è gradualmente ridotto, al punto che oggi rivestono un ruolo in genere marginale nel panorama politico.

Questo declino è stato causato da due fattori, ovvero l’aggressività delle politiche di destra da un lato e una serie di scelte sbagliate compiute dai sindacati stessi dall’altro. Anche se, forse, è corretto affermare che è stato il primo elemento a causare il secondo, secondo un meccanismo a cui ho accennato nel mio articolo sul fenomeno più generale del degrado della sinistra.

E così, attualmente, accade che molte aziende vietano di fatto la sindacalizzazione. Ma anche che numerosi lavoratori, indipendentemente dalle politiche aziendali, non vedono di buon occhio l’idea di aderire ai sindacati. L’ideologia capitalista è stata introiettata in modo diffuso e ognuno cerca di trovare la sua propria strada per ottenere miglioramenti salariali o di altra natura. Seguendo, nei fatti, la logica del self-made man.

Il risultato è che, venuta meno l’azione dei sindacati, le condizioni lavorative di una buona fetta di lavoratori si sono degradate in modo netto, arricchendo in modo inversamente proporzionale le élite.

Giusto per far capire quanto importante sia questo aspetto, è significativo osservare che, quando Ronald Reagan e Margareth Thatcher arrivarono al potere, aggredirono con particolare violenza proprio alcuni tra i sindacati più potenti dei rispettivi paesi. Nel primo caso si trattava del sindacato dei controllori di volo “PATCO”, mentre nel secondo si trattava di quello dei minatori.

E non è un caso se, negli ultimi cinque anni, proprio gli Stati Uniti sono uno dei paesi in cui i sindacati hanno cominciato a riorganizzarsi nel modo più incisivo. Basta dare un’occhiata a questo sito per rendersi conto di quali sono le azioni che vengono attualmente portate avanti in questo senso.

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Il secondo aspetto è meno ovvio, anche se la dinamica è molto semplice. Si tratta del fatto che la solitudine, indirettamente, aumenta i guadagni di determinati gruppi di interesse attraverso il meccanismo delle “economie di scala”, ovvero il fenomeno che fa sì che il costo unitario di un prodotto si riduca in funzione della scala di produzione del prodotto stesso.

I meccanismi di azione possono variare, ma quello che agisce in questo caso è la ripartizione dei costi fissi su un numero maggiore di unità di prodotto. Le economie di scala vengono in genere applicate all’analisi dei costi di produzione, però è chiaro che possono essere usate anche in altri ambiti.

Prendiamo un caso semplificato. Compariamo la situazione economica di un ragazzo e di una ragazza che decidono di andare a vivere insieme oppure che preferiscono restare single e vivere da soli. Faccio i calcoli basandomi sulla realtà di un’area specifica della periferia di Parigi1, perché ne conosco meglio i prezzi.

Dunque, nel primo caso la coppia pagherà 1300 euro per un appartamento di 60 m2. Nel secondo caso, le due persone pagheranno ciascuna 800 euro per un appartamento di 30 m2. Dal punto di vista dei due ragazzi, l’aumento della spesa sarà del 19% circa. Dal punto di vista di un immobiliarista, invece, ciò che aumenterà è il guadagno. In questa ottica, la solitudine induce di fatto delle diseconomie di scala per i consumatori.

L’esempio della casa è solo uno dei tanti possibili, ma è ovviamente il più significativo in termini economici. Ne “Il capitale nel XXI secolo”, Thomas Piketty evidenzia come gran parte delle disuguaglianze, oggi, si giocano attorno all’aumento del prezzo della casa. Poi potremmo ragionare sulle spese alimentari o sugli elettrodomestici o su altri beni di consumo. In ogni caso, è chiaro che la solitudine dei molti è un affare interessante per i pochi che appartengono a ben organizzati gruppi di interesse.

 

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  1. Si tratta della periferia occidentale, per la precisione la zona situata attorno a Versailles.

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