Uno sguardo diverso

2. Ma la voglia di libertà è ciclica?

© Tutti i diritti riservati all’autore | Marco Moroldo gennaio 2018

 

In un mio precedente articolo ho discusso il processo che ha determinato, a mio modo di vedere, il progressivo degrado dei partiti di sinistra a partire dagli anni ’80. Una dinamica che ho spiegato come conseguenza dell’aggressiva presa di potere da parte dei movimenti neoconservatori nel peculiare contesto di fine anni ’70.

Le vicende storiche, tuttavia, si possono sempre guardare da punti di vista diversi. Di volta in volta, si possono tenere maggiormente in considerazione, ad esempio, aspetti geopolitici, economici, culturali o anche tecnologici. Ogni singolo processo, poi, può essere inquadrato in una cornice più ampia.

Per queste ragioni, adesso voglio ribaltare la mia prospettiva interpretativa. Quello che mi interessa ora, è analizzare il fenomeno del degrado delle sinistre come spia di una condizione più generale di decadenza che investe oggi la società nel suo insieme.

Nello specifico, voglio usare questa volta una chiave di lettura che trovo molto stimolante, forse anche perché più sfuggente rispetto a molte altre. Si tratta di quella che si può definire l’analisi dei cicli storici. Ora, quando si parla di cicli storici, si fa per forza riferimento ai cicli dei regimi di potere. E’ qui che troviamo nel modo più evidente il nesso con l’analisi del degrado dei partiti.

E’ notevole osservare che l’interesse nei confronti di questo argomento appare spiccato sin da epoche molto remote. Di fatto, il primo storico che delineò una teoria organica sulla natura ciclica dei regimi di potere fu Polibio, vissuto nel II secolo avanti Cristo. Questo autore riprese concetti in parte già esposti da Erodoto e da Platone e usò il termine “anaciclosi” per definire la propria teoria.

L’idea di fondo è che esistono tre forme di governo “benigne”, che sono per loro stessa natura instabili e che, pertanto, evolvono nel tempo verso forme di governo “maligne”, ovvero degradate. Queste ultime, tuttavia, sono anch’esse instabili, e tendono nel tempo ad essere nuovamente sostituite da regimi benigni.

Per illustrare il pensiero di Polibio è senz’altro utile riportare questo suo famoso brano, tratto dal libro VI delle “Storie”, una delle sue opere principali. Trovo che sia di grandissima efficacia:

 

“…finché sopravvivono cittadini che hanno sperimentato la tracotanza e la violenza, essi stimano più di ogni altra cosa l’uguaglianza di diritti e la libertà di parola; ma quando subentrano al potere dei giovani e la democrazia viene trasmessa ai figli dei figli di questi, non tenendo più in gran conto, a causa dell’abitudine, l’uguaglianza e la libertà di parola, cercano di prevalere sulla maggioranza; in tale colpa incorrono soprattutto i più ricchi. Desiderosi dunque di preminenza, non potendola ottenere con i propri meriti e le proprie virtù, dilapidano le loro sostanze per accattivarsi la moltitudine, allettandola in tutti i modi. Quando sono riusciti, con la loro stolta avidità di potere, a rendere il popolo corrotto e avido di doni, la democrazia viene abolita e si trasforma in violenta demagogia…”

Polibio, in sostanza, dice che la demagogia nasce innanzitutto a causa del comportamento di quelle persone che, non avendo conosciuto in prima persona la tirannia, non capiscono l’importanza assoluta della libertà. L’analisi è brillante, e calza a pennello se riferita al momento storico che viviamo.

E’ importante osservare che, nel suo ragionamento, l’autore pone l’accento su due elementi. Il primo è l’amore per la libertà e per l’uguaglianza come necessità intrinseca a garantire la democrazia.

Il secondo, ugualmente importante, è meno facile da definire. Si tratta in sostanza dell’importanza del modo di agire delle persone, delle loro abitudini, dei loro valori e del loro vissuto personale. E’ una visione molto moderna, secondo me, perché mette in rilievo aspetti di fatto intangibili come la sensibilità e la cultura. Tanto per capirci, una legge non serve a nulla se non viene rispettata o, in altre parole, ciò che fa la differenza è sempre l’elemento umano.

Veniamo a noi. I nostri nonni hanno conosciuto la guerra, la dittatura e la miseria che ne consegue, sapevano cos’erano per esperienza personale. Analogamente, i politici delle vecchie generazioni, con tutti i loro limiti, avevano uno spessore ben diverso rispetto ai loro omologhi contemporanei.

Più in generale, per dare il giusto valore a qualcosa, a qualunque cosa, è necessario sperimentarne la privazione, è necessario averla conquistata, ed è necessario aver lottato per ottenerla. Ed è anche necessario capire quale sia il significato profondo dell’esperienza della lotta per un essere umano.

Ora, chi ha oggi meno di quarant’anni ha tutt’al più sentito qualche racconto sulla guerra o sulla resistenza da parte dei nonni. I sessantenni sono forse più sensibili a queste tematiche, ma di fatto nemmeno loro hanno vissuto in prima persona queste cose.

E allora, se guardiamo a queste ultime generazioni in un’ottica polibiana, possiamo concludere che si tratta di persone che, in buona parte, non sono in grado di dare la giusta importanza alla libertà e che tendono a tollerare eventuali derive autoritarie. Lascio al lettore trarre le conclusioni su ciò che questo può comportare.

Ci sono altre cose che vanno considerate. Una delle più rilevanti, secondo me, riguarda le conseguenze della diffusione del benessere economico nei paesi occidentali a partire dal secondo dopoguerra. Il benessere, anche se ha ovviamente molti aspetti positivi, tende per così dire a fiaccare gli animi.

La ricchezza, cioè, mette a tacere le coscienze: se uno ha la pancia piena, si preoccupa meno di dibattiti complessi sulla libertà o sulla società, e si interessa meno alla politica. Detto con altre parole, il consumismo tende a promuovere l’individualismo e il vantaggio immediato.

E da qui, si passa rapidamente all’apatia generalizzata nei confronti del dibattito politico. Apatia che, peraltro, è sapientemente sfruttata dai politici stessi. Insomma, si ritorna al solito meccanismo del “panem et circenses”.

Concludo con una domanda: a che punto del ciclo ci troviamo? Che siamo in una fase di degrado, questo mi sembra fuori dubbio. Ma la parte “maligna” del ciclo quando terminerà?

Io credo che terminerà quando i cittadini, quelli che oggi sperimentano le nuove forme di tirannia, di ingiustizia e di precarietà, assumeranno una nuova coscienza e cominceranno a interessarsi davvero, in modo attivo, alla difesa della libertà e dell’uguaglianza. E quando emergeranno nuove figure di intellettuali e di politici capaci di rimettere davvero al centro del dibattito questi valori.

 

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