Uno sguardo diverso

4. Miami Vice e il neoliberismo

© Tutti i diritti riservati all’autore | Marco Moroldo aprile 2019

 

Era il 1988 quando, per la prima volta, guardai un episodio della serie televisiva “Miami Vice”. La sigla di apertura s’impresse nella mia mente in modo indelebile e divenne per me un simbolo di quegli anni.

Mi rendo conto che, leggendo queste prime righe, può sembrare che l’argomento di questo sia in aperto contrasto con quelli affrontati finora. E, tuttavia, c’è un legame profondo con tutte le riflessioni precedenti.

Torniamo a Miami Vice. All’epoca, era raro che riuscissi a terminare una puntata. Avevo undici anni, e quella serie era troppo complessa per me. Finivo sempre per annoiarmi. Qualcosa, però, mi spingeva comunque a cercare di guardare l’episodio successivo. Qualcosa che non riuscivo a identificare in modo chiaro.

Di serie televisive americane ce n’erano tante in giro, ma quella era la più costosa mai realizzata e quella che dava maggior enfasi all’estetica, sia a livello dei personaggi che delle ambientazioni.

Raccontava le storie di due poliziotti dell’antidroga di Miami, irrimediabilmente intrise di violenza e di corruzione. Ma lo faceva con uno stile unico. I personaggi vestivano secondo una certa moda anni ‘80, con giacche in lino perfettamente abbinate a magliette pastello, pantaloni morbidi e immancabili espadrillas.

Era un mondo marcio, ma costellato di spiagge e palme caraibiche, di grattacieli bianchissimi e di auto di lusso spesso anch’esse bianchissime. Il bianco era onnipresente, così come la brezza che scuoteva le palme.

Certo, questi elementi contengono le premesse per qualcosa di potenzialmente pacchiano, ma Miami Vice era un prodotto piuttosto raffinato, con musiche di autori famosi e personaggi di una certa profondità.

Questi, tuttavia, sono dettagli. Di fatto, ciò che mi incollava davvero allo schermo non erano gli eventuali meriti artistici della serie, bensì il suo stile, il suo essere di tendenza, il suo glamour. Non ero un modaiolo, non lo erano i miei genitori, né i miei amici. Vivevo in un ambiente rurale, e la moda era qualcosa di lontano.

In realtà, sarebbe più corretto dire che la moda era lontana a livello cosciente. Evidentemente, però, ne eravamo già tutti vittime a livello incosciente. E questo è un punto chiave su cui tornerò. E così, per quanto non mi sentissi un modaiolo, non potevo fare a meno di essere affascinato da quelle storie.

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E ora veniamo al dunque. Ripensando a quegli anni, oggi so che Miami Vice mi piaceva perché i protagonisti erano dei vincenti, termine che si diffondeva proprio allora e che traduceva l’inglese “winner”. Ovviamente, contrapposto al necessario “loser”, che in quel contesto diventava una sorta di peccatore destinato agli inferi.

I due poliziotti sapevano il fatto loro e incarnavano alla perfezione l’ideale umano del periodo. Reagan era arrivato al potere da poco e aveva dato il via in modo inarrestabile alla rivoluzione neoliberista.

Era il tornante ideologico più importante dal dopoguerra. In economia, si passava dalle idee di Keynes, come la piena occupazione e la ridistribuzione, alle teorie propugnate da economisti come Friedman, con tutto il loro armamentario di dogmi pensati, in ultima analisi, per togliere alle classi medie e dare ai ricchi.

Questo nuovo orientamento implicava un modello di uomo individualista, aggressivo e cinico. Un uomo solo e in competizione costante contro tutti i suoi simili, che non doveva provare empatia per non correre il rischio di fregature. Bontà, debolezza e umanità diventavano definitivamente attributi dei perdenti.

Il mondo dei trafficanti di droga era perfetto per raccontare quei valori. Ma quella serie era soprattutto perfetta per vendere quegli stessi valori al pubblico più ampio possibile. Obiettivo che era ottenuto usando qualcosa che il genio americano aveva portato alla massima espressione: l’immagine.

La società dell’immagine non è certo nata con Miami Vice, e non è certo cominciata negli anni ’80. Ma quell’epoca è stata una svolta, proponendo modelli nuovi con un’aggressività prima di allora sconosciuta. Sono stati gli anni degli stilisti di fama internazionale e delle top model. Gli anni dei videoclip e di Richard Gere che, in American Gigolo, allinea le giacche e le camicie sul letto per scegliere l’abbinamento migliore.

Tutti simboli potentissimi al servizio della nuova ideologia. Il nuovo mondo dei ricchi ed egoisti senza complessi era dipinto innanzitutto come un mondo di bellezza e di stile.

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A undici anni, per tendenza personale, sarei stato di sinistra. Quando però cominciai ad avvicinarmi alla politica, alcuni anni dopo, mi trovai combattuto tra le mie inclinazioni e le suggestioni incalzanti del neoliberismo. La gente che sembrava importante tendeva a seguire quelle idee, che erano diffuse in modo martellante da riviste, libri e telegiornali. Ma questo, di per sé, ancora non bastava per convincermi del tutto.

Ci voleva qualcos’altro. Qualcosa che mi era offerto proprio da una serie come Miami Vice. Quando la guardavo, pensavo che volevo essere come quei due poliziotti. Volevo avere il loro stile e la loro eleganza. Cosa che, però, comportava un prezzo da pagare.

Già, perché adottare quell’estetica implicava, di fatto, adottare indirettamente anche l’ideologia che la sottendeva. Per ironia della sorte, quello stile non riuscii a imitarlo mai. E, di fatto, nemmeno ci provai.

I concetti di natura sociale ed economica espressi dalla cultura dominante del periodo, invece, influirono su di me in modo forte. Senza accorgermene, mi ritrovai pian piano ad accogliere idee che, a tutta prima, trovavo assurde. Come l’assoluta razionalità dei mercati o l’inevitabilità della competizione.

Andai spesso contro il mio sentire più profondo e mi capitò di comportarmi seguendo schemi a me estranei, sia in ambito lavorativo che nelle relazioni personali. Tutto questo finì per determinare in me, gradualmente, una rilevante conflittualità interiore. Alcuni anni dopo, quando cominciai a intuire le cose, mi ci vollero comunque lunghe e dolorose riflessioni per dipanare la matassa e ritrovare me stesso.

A questo punto, bisogna che mi soffermi su alcuni aspetti importanti. Per cominciare, ci si può chiedere come sia stato possibile che un certo immaginario avesse agito su di me in modo così importante, ma del tutto inconscio. Parrebbe incredibile, invece non è così. Infatti, oggi si sa che la maggior parte dell’attività mentale umana è inconscia, anche se ciò non è ancora compreso in tutta la sua portata dal grande pubblico.

Senza una specifica capacità di “comprensione critica della realtà”1, gran parte delle nostre azioni sono guidate da motivazioni di cui non siamo minimamente a conoscenza.

Di fatto, quello che è capitato a me è stato ampiamente descritto e spiegato molto tempo addietro. Si tratta del processo di interiorizzazione della visione del mondo delle classi che detengono il potere, che sta alla base di quella che Gramsci definisce “egemonia culturale”. Non sono di certo l’unico ad averlo vissuto.

Un altro aspetto fondamentale è che l’immagine fece da cavallo di troia per farmi accettare concetti di natura socioeconomica. Un meccanismo non dissimile da quello che gli americani definiscono “soft power”.

Un’ultima cosa. E’ chiaro che Miami Vice non fu il principale responsabile del mio cambiamento di mentalità. Le idee neoliberiste erano ovunque, e agirono su di me a livelli molto diversi. Ho preso la serie come esempio perché colpì il mio immaginario in profondo, cosa che, peraltro, dimostra la potenza dei meccanismi stessi.

 

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  1. Uso una definizione dello psicologo Luigi Anepeta, che ha analizzato questo concetto con tutte le sue implicazioni in diverse opere, tra cui appunto “La comprensione critica della realtà umana”.

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